La Repubblica
Ed. del 17.08.2011 - Palermo - pag. X
Vincenzo Borruso
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Sanità malata il fallimento dei manager sponsorizzati
In questi giorni ferragostani, in cui si parla più di crac finanziari che di ferie, una preoccupazione in più si è aggiunta fra le tante dei siciliani: quella di un Servizio sanitario che non riesce a stare dentro i limiti di spesa che sono stati individuati per il rientro dal deficit economico accumulato dalle Asp dell’Isola.
Le concitate trattative che sembra siano in corso nelle stanze dell’assessorato alla Salute e relative alla possibilità che almeno quattro su nove aziende sanitarie provinciali perdano il proprio direttore generale, che non è riuscito a rispettare il limite di spesa concordato con la Regione, potrebbero rappresentare il vistoso fallimento di una politica sanitaria basata sui tagli e sugli accorpamenti dei servizi, più che sulla ricerca di sprechi e anomale duplicazioni. E che ha puntato anche, in teoria, su una gestione severa affidata alla scelta di manager professionalmente qualificati ma che, in pratica, è risultata una scelta che ha privilegiato l’”appartenenza” più che “la professionalità”.
Le soluzioni alle quali oggi l’amministrazione sanitaria regionale è costretta, con la ricerca di direttori generali che sostituiscano quelli che hanno sforato il budget, rappresentando il fallimento di una politica. Una politica che ha scelto vie di vecchio stampo clientelare, riservando le velleità rigoristiche a tagli non in linea con l’osservazione epidemiologica e con l’obbligo di non abbassare i livelli minimi di assistenza. È da sperare che le nuove scelte non guardino più alla “appartenenza” poiché il futuro della nostra sanità deve essere affidato a “tecnici” che, non trascurando gli aspetti sociali e politici di un corretto welfare, sappiano sviluppare una managerialità in grado di tener conto del dato demografico e di quello epidemiologico nella messa a punto di piani aziendali da cui siano banditi gli sprechi ma non le soluzioni che difendano la salute e la vita dei cittadini con i migliori risultati al minor “prezzo”. Il futuro della sanità sarà duro, e potremmo trovarci di fronte a fallimenti, anche con manager qualificati, per due motivi. Uno è quello di una perdurante convinzione che in Italia la sanità debba funzionare con una quota di prodotto interno lordo inferiore alle percentuali che in atto vi dedicano Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra con i quali servizi sanitari fino a qualche anno fa il nostro Paese gareggiava in posizioni vincenti. I tagli che l’attuale crisi finanziaria mondiale impone renderà i servizi sanitari, e del welfare in genere, sempre meno accessibili ai cittadini. E non ci sono, finora, scelte del governo italiano capaci di adottare conversioni di spesa adatte a favorire la sanità con la ricerca, la prevenzione, l’aggiornamento professionale, l’educazione sanitaria della popolazione.
L’altro motivo risiede nel fatto che la questione meridionale si caratterizza anche per il suo territorio nel quale continuano vistosamente a mancare i servizi socio-sanitari di base. La Sicilia ne è eclatante esempio e le percentuali di assistenza sul territorio di anziani non autosufficienti, di inabili, di soggetti con disagio mentale, di medullolesi spinali, di autistici, di soggetti con malattie rare, a paragone di ciò che servirebbe e di ciò che si realizza nel Nord del Paese, sono spesso ridicole o non esistono affatto.
In tal modo, anche se nell’ultimo Piano della salute recentemente pubblicato si parla abbastanza di territorio, la percezione (e la constatazione) dei cittadini è che le poche garanzie per la salute ancora oggi sono rappresentate dalla prescrizione di farmaci ed esami chiesti al proprio medico curante e dall’ ospedale. Una ricerca, i cui dati sono stati recentemente pubblicati su Repubblica, rivela che medicine e test non appropriati costano al nostro Paese trai 10 e i 12 miliardi di euro l’anno: circa il 10 per cento della spesa nazionale per la salute.
Richieste costose, di difficile respingimento, che possono essere modificate però da una maggiore presenza di operatori sanitari sul territorio, di un più stretto contatto fra gli operatori stessi, dalla continuità assistenziale fra i vari servizi ospedalieri e del territorio, da piani di aggiornamento e educazione sanitaria certamente meno costosi e meno pericolosi di un eccesso di farmaci e di accertamenti, tipici in situazioni di insicurezza esistenziale quali vivono spesso i nostri “pazienti” cittadini.
Le concitate trattative che sembra siano in corso nelle stanze dell’assessorato alla Salute e relative alla possibilità che almeno quattro su nove aziende sanitarie provinciali perdano il proprio direttore generale, che non è riuscito a rispettare il limite di spesa concordato con la Regione, potrebbero rappresentare il vistoso fallimento di una politica sanitaria basata sui tagli e sugli accorpamenti dei servizi, più che sulla ricerca di sprechi e anomale duplicazioni. E che ha puntato anche, in teoria, su una gestione severa affidata alla scelta di manager professionalmente qualificati ma che, in pratica, è risultata una scelta che ha privilegiato l’”appartenenza” più che “la professionalità”.
Le soluzioni alle quali oggi l’amministrazione sanitaria regionale è costretta, con la ricerca di direttori generali che sostituiscano quelli che hanno sforato il budget, rappresentando il fallimento di una politica. Una politica che ha scelto vie di vecchio stampo clientelare, riservando le velleità rigoristiche a tagli non in linea con l’osservazione epidemiologica e con l’obbligo di non abbassare i livelli minimi di assistenza. È da sperare che le nuove scelte non guardino più alla “appartenenza” poiché il futuro della nostra sanità deve essere affidato a “tecnici” che, non trascurando gli aspetti sociali e politici di un corretto welfare, sappiano sviluppare una managerialità in grado di tener conto del dato demografico e di quello epidemiologico nella messa a punto di piani aziendali da cui siano banditi gli sprechi ma non le soluzioni che difendano la salute e la vita dei cittadini con i migliori risultati al minor “prezzo”. Il futuro della sanità sarà duro, e potremmo trovarci di fronte a fallimenti, anche con manager qualificati, per due motivi. Uno è quello di una perdurante convinzione che in Italia la sanità debba funzionare con una quota di prodotto interno lordo inferiore alle percentuali che in atto vi dedicano Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra con i quali servizi sanitari fino a qualche anno fa il nostro Paese gareggiava in posizioni vincenti. I tagli che l’attuale crisi finanziaria mondiale impone renderà i servizi sanitari, e del welfare in genere, sempre meno accessibili ai cittadini. E non ci sono, finora, scelte del governo italiano capaci di adottare conversioni di spesa adatte a favorire la sanità con la ricerca, la prevenzione, l’aggiornamento professionale, l’educazione sanitaria della popolazione.
L’altro motivo risiede nel fatto che la questione meridionale si caratterizza anche per il suo territorio nel quale continuano vistosamente a mancare i servizi socio-sanitari di base. La Sicilia ne è eclatante esempio e le percentuali di assistenza sul territorio di anziani non autosufficienti, di inabili, di soggetti con disagio mentale, di medullolesi spinali, di autistici, di soggetti con malattie rare, a paragone di ciò che servirebbe e di ciò che si realizza nel Nord del Paese, sono spesso ridicole o non esistono affatto.
In tal modo, anche se nell’ultimo Piano della salute recentemente pubblicato si parla abbastanza di territorio, la percezione (e la constatazione) dei cittadini è che le poche garanzie per la salute ancora oggi sono rappresentate dalla prescrizione di farmaci ed esami chiesti al proprio medico curante e dall’ ospedale. Una ricerca, i cui dati sono stati recentemente pubblicati su Repubblica, rivela che medicine e test non appropriati costano al nostro Paese trai 10 e i 12 miliardi di euro l’anno: circa il 10 per cento della spesa nazionale per la salute.
Richieste costose, di difficile respingimento, che possono essere modificate però da una maggiore presenza di operatori sanitari sul territorio, di un più stretto contatto fra gli operatori stessi, dalla continuità assistenziale fra i vari servizi ospedalieri e del territorio, da piani di aggiornamento e educazione sanitaria certamente meno costosi e meno pericolosi di un eccesso di farmaci e di accertamenti, tipici in situazioni di insicurezza esistenziale quali vivono spesso i nostri “pazienti” cittadini.
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