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Linea di confine
118, se funziona bene è il numero vincente
L'allarme lo ha lanciato Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, nonché dell'Emilia, dopo l'infruttuoso incontro ai primi di agosto con Berlusconi. Che le cose si mettano male lo prova il fatto che un appuntamento di chiarificazione, fissato per il 4 settembre, sia stato rinviato a data incerta. La questione riguarda i prossimi finanziamenti della spesa sanitaria. In merito il governo ha annunciato per il triennio solo un ritocco minimo del Fondo sanitario nazionale che oggi sfiora i 100 miliardi annui di euro.
Poiché l'incremento medio annuo si attesta costantemente verso il 4% (cioè 2 e 1/2-3 miliardi l'anno) si prevede, secondo Errani, che «dal 2010 mancheranno nel biennio 7 miliardi, tenendo anche conto che è stato azzerato il fondo per la non autosufficienza. Si vuole o no prendere atto che tutte le Regioni italiane andranno in rosso, se non viene corretta la stima per il fabbisogno della Sanità? «Se ciò si verificasse non solo ne risentirebbero le prestazioni, ma gravi ripercussioni subirebbero il «federalismo solidale» e i rapporti fra Stato e Regioni.
Oggi solo alcune Regioni del Centro-Sud sono in disavanzo strutturale: Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia, impegnate in uno sforzo di risanamento, in base ai «piani di rientro». Si tratta di un programma di vasto respiro, di notevole difficoltà, di sacrifici non facili. Se pure in modo schematico è bene che l'opinione pubblica ne abbia una idea. Il primo Patto per la Salute risale al 2001. Con esso i debiti regionali, che riguardavano anche realtà del Settentrione, vennero azzerati, a carico del bilancio dello Stato. In cambio le Regioni si assunsero la responsabilità dei costi, così da non andare di nuovo in rosso, e di una serie di scelte che riguardavano il raggiungimento di determinati standard sulla qualità e appropriatezza delle prestazioni. Al centro della svolta si collocava e si colloca la cura del paziente «nel posto giusto e nel tempo giusto». Il che significa spostare sul territorio la terapia di tutte quelle patologie che non impongono il ricovero in ospedale, attivando day hospital, ambulatori, case salute con medici di base, laboratori, consultori, hospice per lungo degenti e post acuzie e, ad un tempo, qualificare, ammodernare e soprattutto concentrare gli ospedali veri e propri, riservandoli alle patologie gravi o acute. Ne conseguono due esigenze imprescindibili: 1) chiudere gli ospedali troppo piccoli o pletorici in rapporto al territorio, che per la loro stessa dimensione non sono in grado di offrire prestazioni a livello adeguato e implicano dispersione e spreco di risorse; 2) migliorare nettamente il servizio del 118, quel numero telefonico unico a cui deve corrispondere una rete attiva 24 ore su 24 in collegamento con le centrali operative per il soccorso di emergenza con ambulanze attrezzate, auto-mediche, eliambulanze, centri mobili di riabilitazione.
Con a bordo personale qualificato di decidere quale sia il nosocomio raggiungibile più adatto per la patologia in atto. Non, quindi, la vecchia rete di ospedali, ospedaloni e ospedaletti sovrapposti e per tutti gli usi ma una rete di presidi - mobili e no - con compiti e funzioni articolate ed integrate: punti di pronto intervento, pronto soccorso ospedaliero, Dea (Dipartimento emergenza accettazione) di primo e secondo livello. Attorno a questa scommessa si gioca requilibrio del Servizio sanitario nazionale. La maggioranza delle Regioni, guidate dal quadrilatero trainante (Lombardia, Emilia, Veneto, Toscana) è già avanti su questa strada. I piani triennali di rientro che vengono ora a scadenza e vanno rinnovati (non è pensabile che ciò che i più forfi hanno realizzato in una ventina d'anni, i più dissestati lo compiano in tre) hanno frattanto conseguito il blocco dell'incremento tendenziale della spesa. Non è poco. Sarebbe catastrofico se questa forte spinta alla qualificazione della spesa e al miglioramento delle prestazioni venisse ora vanificata.
Poiché l'incremento medio annuo si attesta costantemente verso il 4% (cioè 2 e 1/2-3 miliardi l'anno) si prevede, secondo Errani, che «dal 2010 mancheranno nel biennio 7 miliardi, tenendo anche conto che è stato azzerato il fondo per la non autosufficienza. Si vuole o no prendere atto che tutte le Regioni italiane andranno in rosso, se non viene corretta la stima per il fabbisogno della Sanità? «Se ciò si verificasse non solo ne risentirebbero le prestazioni, ma gravi ripercussioni subirebbero il «federalismo solidale» e i rapporti fra Stato e Regioni.
Oggi solo alcune Regioni del Centro-Sud sono in disavanzo strutturale: Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia, impegnate in uno sforzo di risanamento, in base ai «piani di rientro». Si tratta di un programma di vasto respiro, di notevole difficoltà, di sacrifici non facili. Se pure in modo schematico è bene che l'opinione pubblica ne abbia una idea. Il primo Patto per la Salute risale al 2001. Con esso i debiti regionali, che riguardavano anche realtà del Settentrione, vennero azzerati, a carico del bilancio dello Stato. In cambio le Regioni si assunsero la responsabilità dei costi, così da non andare di nuovo in rosso, e di una serie di scelte che riguardavano il raggiungimento di determinati standard sulla qualità e appropriatezza delle prestazioni. Al centro della svolta si collocava e si colloca la cura del paziente «nel posto giusto e nel tempo giusto». Il che significa spostare sul territorio la terapia di tutte quelle patologie che non impongono il ricovero in ospedale, attivando day hospital, ambulatori, case salute con medici di base, laboratori, consultori, hospice per lungo degenti e post acuzie e, ad un tempo, qualificare, ammodernare e soprattutto concentrare gli ospedali veri e propri, riservandoli alle patologie gravi o acute. Ne conseguono due esigenze imprescindibili: 1) chiudere gli ospedali troppo piccoli o pletorici in rapporto al territorio, che per la loro stessa dimensione non sono in grado di offrire prestazioni a livello adeguato e implicano dispersione e spreco di risorse; 2) migliorare nettamente il servizio del 118, quel numero telefonico unico a cui deve corrispondere una rete attiva 24 ore su 24 in collegamento con le centrali operative per il soccorso di emergenza con ambulanze attrezzate, auto-mediche, eliambulanze, centri mobili di riabilitazione.
Con a bordo personale qualificato di decidere quale sia il nosocomio raggiungibile più adatto per la patologia in atto. Non, quindi, la vecchia rete di ospedali, ospedaloni e ospedaletti sovrapposti e per tutti gli usi ma una rete di presidi - mobili e no - con compiti e funzioni articolate ed integrate: punti di pronto intervento, pronto soccorso ospedaliero, Dea (Dipartimento emergenza accettazione) di primo e secondo livello. Attorno a questa scommessa si gioca requilibrio del Servizio sanitario nazionale. La maggioranza delle Regioni, guidate dal quadrilatero trainante (Lombardia, Emilia, Veneto, Toscana) è già avanti su questa strada. I piani triennali di rientro che vengono ora a scadenza e vanno rinnovati (non è pensabile che ciò che i più forfi hanno realizzato in una ventina d'anni, i più dissestati lo compiano in tre) hanno frattanto conseguito il blocco dell'incremento tendenziale della spesa. Non è poco. Sarebbe catastrofico se questa forte spinta alla qualificazione della spesa e al miglioramento delle prestazioni venisse ora vanificata.
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