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Il commissariamento della sanità in Campania e Molise non è solo un atto sacrosanto compiuto dal ministro del Welfare Sacconi. E non è nemmeno la cronaca di un allarme annunciato, visto che 6 regioni su 20 hanno accumulato un deficit di 3,5 miliardi - su oltre 100 miliardi di spesa complessiva - che rischia di far esplodere l’intero impianto sanitario nazionale. No, l’allarme sanità è il termometro che segna la cattiva salute di un sistema, quello del decentramento, nato negli anni Settanta con le Regioni - peraltro senza cancellare le Province, come chiedeva Ugo La Malfa - e oggi finito fuori controllo. Anzi, nel frattempo abbiamo assistito alla moltiplicazione delle Province e dei Comuni, per arrivare al "monstrum" istituzionale e finanziario di fronte al quale ci troviamo oggi con 20 Regioni, 109 Province e 8.100 Comuni, cui si aggiunge una pletora di istituzioni di secondo e terzo grado. Su questo "monstrum" si è poi inserito il processo di devoluzione, partito con le modifiche al titolo V della Costituzione votate dal centro-sinistra e proseguito col federalismo tanto caro al centrodestra.
Risultato? Una moltiplicazione di competenze e centri di spesa che non ha portato solo al default della sanità regionale ma anche all’esplosione della spesa pubblica e della pressione fiscale (dal 1995 al 2006, mentre le tasse nazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12%, quelle locali hanno subito un incremento del 111%, arrivando a rappresentare l’11% del totale). Se questa è l’insostenibile situazione attuale, è chiaro che a questo punto la scelta è tra due opzioni: proseguire sulla via della devoluzione, dando attuazione al federalismo fiscale, o attuare un dietrofront. Nel primo caso, i rischi sono molto alti. Infatti, pur tenendo in grande considerazione il vero plus della proposta leghista - il passaggio dal concetto di spesa storica a quello di "costo standard", finalizzato a introdurre una meritocrazia tra i fornitori di servizi nelle varie aree del Paese - la scommessa sul futuro è viziata dai risultati del passato. Chi ci garantirà, per esempio, che il percorso dei prossimi anni sarà diverso dagli ultimi 15? La stessa Lega, che ha ampiamente governato nella Seconda Repubblica, sebbene idealmente guidata da principi meritocratici, non si può certo tirare fuori dal risultato di dissesto che abbiamo oggi davanti. Siamo dunque pronti a prenderci questo rischio? In alternativa, occorre rivedere un sistema che moltiplica i centri di (in)decisione, che mira ad aumentare il "size" degli enti politici per competere meglio nella globalizzazione, e non a sbriciolare le già fragili basi di uno stato di recente formazione come il nostro, esasperandone localismi e sprechi. Per compiere questo dietrofront virtuoso, si dovrebbe partire proprio dalla sanità. Riportandola nell’alveo nazionale, tornando a un principio mutualistico, rendendola dunque nuovamente controllabile.
Un’operazione che consentirebbe non solo di risparmiare decine di miliardi, ma anche di sottrarre un aspetto strategico del sistema-paese a un abuso di controllo politico che col decentramento si è sviluppato a livelli patologici. In questo senso, più che commissariare le regioni, andrebbe commissariato il federalismo. Almeno quello praticato fin qui.
Risultato? Una moltiplicazione di competenze e centri di spesa che non ha portato solo al default della sanità regionale ma anche all’esplosione della spesa pubblica e della pressione fiscale (dal 1995 al 2006, mentre le tasse nazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12%, quelle locali hanno subito un incremento del 111%, arrivando a rappresentare l’11% del totale). Se questa è l’insostenibile situazione attuale, è chiaro che a questo punto la scelta è tra due opzioni: proseguire sulla via della devoluzione, dando attuazione al federalismo fiscale, o attuare un dietrofront. Nel primo caso, i rischi sono molto alti. Infatti, pur tenendo in grande considerazione il vero plus della proposta leghista - il passaggio dal concetto di spesa storica a quello di "costo standard", finalizzato a introdurre una meritocrazia tra i fornitori di servizi nelle varie aree del Paese - la scommessa sul futuro è viziata dai risultati del passato. Chi ci garantirà, per esempio, che il percorso dei prossimi anni sarà diverso dagli ultimi 15? La stessa Lega, che ha ampiamente governato nella Seconda Repubblica, sebbene idealmente guidata da principi meritocratici, non si può certo tirare fuori dal risultato di dissesto che abbiamo oggi davanti. Siamo dunque pronti a prenderci questo rischio? In alternativa, occorre rivedere un sistema che moltiplica i centri di (in)decisione, che mira ad aumentare il "size" degli enti politici per competere meglio nella globalizzazione, e non a sbriciolare le già fragili basi di uno stato di recente formazione come il nostro, esasperandone localismi e sprechi. Per compiere questo dietrofront virtuoso, si dovrebbe partire proprio dalla sanità. Riportandola nell’alveo nazionale, tornando a un principio mutualistico, rendendola dunque nuovamente controllabile.
Un’operazione che consentirebbe non solo di risparmiare decine di miliardi, ma anche di sottrarre un aspetto strategico del sistema-paese a un abuso di controllo politico che col decentramento si è sviluppato a livelli patologici. In questo senso, più che commissariare le regioni, andrebbe commissariato il federalismo. Almeno quello praticato fin qui.
26.07.2009 http://www.medpress.it/rass_stampa/rstampa.php?id=2468 | Enrico Cisnetto |
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