|
«No» alla chiusura dei piccoli ospedali
La gente protesta e la parola tagli diventa un «orribile dictu».
Nell'Italia neo medievale dei comuni tra i fenomeni duri a morire c'è quello delle insurrezioni per la chiusura dei piccoli ospedali cittadini. Non si tratta di spontanea sommossa popolare, fenomeno molto raro nella storia, ma di fomentazione della folla per interessi per lo più di pochi ma spacciati come collettivi.
Il dato di partenza è che non vi sono più soldi per un'assistenza sprecona della salute. Le parole d'ordine "tagli" e "rifunzionalizzazione" sono un "orribile dictu" per chi è stato per decenni abituato a non porsi problemi sul rapporto costi - benefici su cui vanno improntate anche le aziende sanitarie, pena il collasso dell'intero sistema a danno della popolazione di un'intera regione.
Un esempio per tutti il Lazio, una regione con una spaventosa voragine debitoria nel settore, dove 24 ospedali andranno riconvertiti. 2865 posti letto con indici di utilizzo ridicoli verranno rifunzionalizzati per le patologie croniche e la riabilitazione, anche perché la vita si allunga e la sua qualità per gli anziani che vivono in vasti comprensori va garantita di più e meglio.
La manovra è quella di tagliare i posti per acuti, lasciandoli a quei presidi ad alta specializzazione che possano garantire la migliore assistenza possibile, eliminare i doppioni a pochi chilometri di mediocre specialità e dunque superflui. Infine smascherare gli interessi di bottega di chi, pur conservandolo, non avrebbe il posto di lavoro sotto casa.
Un tempo ogni paese aveva un ospedale. Nel Lazio comunità come Ariccia, Rocca Priora, Arpino, Ferentino o Gaeta, comuni anche di ventimila anime che distano pochi chilometri, hanno un presidio ospedaliero. Ciò trovava giustificazione nel fatto che i nosocomi si raggiungevano anche sul dorso del mulo. Logisticamente erano persino situati sulla cima del centro abitato per motivi di isolamento e di spicco che oggi fanno sorridere. In Calabria addirittura l'occupazione clientelare ha puntato sull'impiego in asl ed ospedali con una qualità prestazionale consequenziale.
Oggi la buona sanità si fa con i punti di primo intervento, ma anche con le autostrade, con le elisuperfici e con la telemetria in ambito medicale. Insomma non è necessario avere dispendiose strutture ravvicinate ed i criteri di efficienza ed economicità devono puntare non ad un anacronistico campanilismo stressato ad arte, ma a ciò che è più utile per la gente.
Vi sono regioni prive di qualificati luoghi di riabilitazione e dove un malato che necessita di rieducazione deve allontanarsi notevolmente da casa con disagi di ogni tipo. Il cittadino che guarda alla riconversione del proprio ospedale di paese non lo fa con gli occhi dell'ammalato, ma con quelli di colui il quale ha un gonfalone da difendere per principio. Da malato magari si ricovererà altrove.
Guerre sante in apparenza, ma molto laiche nella sostanza, frutto di interessi talvolta meschini. Chiunque subisce un'emergenza sanitaria ha interesse ad essere trattato nel più breve tempo possibile laddove avrà un'assistenza altamente qualificata con step di buone prassi cliniche sia nell'acuzie che nelle complicanze. Se per tutto ciò deve percorrere 10 o 20 chilometri di autostrada in un'ambulanza attrezzata di certo è un problema meno saliente che ricoverarsi in un ospedale da dove dovrà essere comunque trasferito subito dopo.
La malasanità non è fatta soltanto di errori clinici, ma anche dell'immorale pretesa di fare carriera senza troppa concorrenza in un ospedale con soli 40 posti letto mai occupati, passeggiando da primario del nulla nel corso cittadino. Un limite culturale che ancora affligge certa classe dirigente in sanità con l'avallo di certa politica, un connubio deleterio che ha portato al collasso del sistema.
Il progresso è tuttavia inarrestabile e le mulattiere oggi sono diventate superstrade. Ma se sono rimaste tali non potranno più condurre verso luoghi per il trattamento delle urgenze. Qui è il principio di realtà a prevalere sull'ideologia.
Il dato di partenza è che non vi sono più soldi per un'assistenza sprecona della salute. Le parole d'ordine "tagli" e "rifunzionalizzazione" sono un "orribile dictu" per chi è stato per decenni abituato a non porsi problemi sul rapporto costi - benefici su cui vanno improntate anche le aziende sanitarie, pena il collasso dell'intero sistema a danno della popolazione di un'intera regione.
Un esempio per tutti il Lazio, una regione con una spaventosa voragine debitoria nel settore, dove 24 ospedali andranno riconvertiti. 2865 posti letto con indici di utilizzo ridicoli verranno rifunzionalizzati per le patologie croniche e la riabilitazione, anche perché la vita si allunga e la sua qualità per gli anziani che vivono in vasti comprensori va garantita di più e meglio.
La manovra è quella di tagliare i posti per acuti, lasciandoli a quei presidi ad alta specializzazione che possano garantire la migliore assistenza possibile, eliminare i doppioni a pochi chilometri di mediocre specialità e dunque superflui. Infine smascherare gli interessi di bottega di chi, pur conservandolo, non avrebbe il posto di lavoro sotto casa.
Un tempo ogni paese aveva un ospedale. Nel Lazio comunità come Ariccia, Rocca Priora, Arpino, Ferentino o Gaeta, comuni anche di ventimila anime che distano pochi chilometri, hanno un presidio ospedaliero. Ciò trovava giustificazione nel fatto che i nosocomi si raggiungevano anche sul dorso del mulo. Logisticamente erano persino situati sulla cima del centro abitato per motivi di isolamento e di spicco che oggi fanno sorridere. In Calabria addirittura l'occupazione clientelare ha puntato sull'impiego in asl ed ospedali con una qualità prestazionale consequenziale.
Oggi la buona sanità si fa con i punti di primo intervento, ma anche con le autostrade, con le elisuperfici e con la telemetria in ambito medicale. Insomma non è necessario avere dispendiose strutture ravvicinate ed i criteri di efficienza ed economicità devono puntare non ad un anacronistico campanilismo stressato ad arte, ma a ciò che è più utile per la gente.
Vi sono regioni prive di qualificati luoghi di riabilitazione e dove un malato che necessita di rieducazione deve allontanarsi notevolmente da casa con disagi di ogni tipo. Il cittadino che guarda alla riconversione del proprio ospedale di paese non lo fa con gli occhi dell'ammalato, ma con quelli di colui il quale ha un gonfalone da difendere per principio. Da malato magari si ricovererà altrove.
Guerre sante in apparenza, ma molto laiche nella sostanza, frutto di interessi talvolta meschini. Chiunque subisce un'emergenza sanitaria ha interesse ad essere trattato nel più breve tempo possibile laddove avrà un'assistenza altamente qualificata con step di buone prassi cliniche sia nell'acuzie che nelle complicanze. Se per tutto ciò deve percorrere 10 o 20 chilometri di autostrada in un'ambulanza attrezzata di certo è un problema meno saliente che ricoverarsi in un ospedale da dove dovrà essere comunque trasferito subito dopo.
La malasanità non è fatta soltanto di errori clinici, ma anche dell'immorale pretesa di fare carriera senza troppa concorrenza in un ospedale con soli 40 posti letto mai occupati, passeggiando da primario del nulla nel corso cittadino. Un limite culturale che ancora affligge certa classe dirigente in sanità con l'avallo di certa politica, un connubio deleterio che ha portato al collasso del sistema.
Il progresso è tuttavia inarrestabile e le mulattiere oggi sono diventate superstrade. Ma se sono rimaste tali non potranno più condurre verso luoghi per il trattamento delle urgenze. Qui è il principio di realtà a prevalere sull'ideologia.
Nessun commento:
Posta un commento
imposta qui i tuoi commenti